Dalla Redazione
Lunedì 20 novembre il Comitato speciale agricoltura che riunisce i rappresentanti degli Stati membri, ha approvato definitivamente il regolamento sulla riforma dell’agricoltura biologica. Phil Hogan, commissario europeo per l’Agricoltura e lo Sviluppo rurale, ha definito le nuove regole “una pietra miliare che metterà gli operatori UE in condizioni di reciprocità con gli altri Paesi”. Ma gli addetti ai lavori del nostro Paese che ne pensano? Lo abbiamo chiesto a Roberto Pinton, segretario AssoBio.
Roberto Pinton che giudizio dà su questa cosiddetta “riforma del biologico”?
Da parte di AssoBio, possiamo dare atto che buona parte delle richieste che abbiamo presentato con la nostra organizzazione europa Ifoam-EU è stata accolta, ma permangono perplessità più o meno pesanti su alcuni aspetti. In primis la nostra attenzione si concentra sulla libertà per ogni Paese di determinare una soglia per la contaminazione accidentale e tecnicamente inevitabile.
Ci spieghi meglio.
Dal 2011 l’Italia ha stabilito una soglia nazionale di 0.01 ppm per contaminazioni accidentali e tecnicamente inevitabili, legate alle contaminazioni ambientali: sta a dire 1 grammo su 100 tonnellate di prodotto. Ma in virtù del Trattato europeo non può rifiutare l’ingresso di un prodotto realizzato all’estero che superi tale soglia, se il Paese di origine ha stabilito una soglia superiore. Ovviamente non ci attendiamo un far west in cui i Paesi partner adottino soglie elevate, ma riteniamo sia opportuno uniformare la situazione, visto che il mercato è unico.
Un esempio delle incongruenze che potrebbero verificarsi?
Se un operatore italiano importa materia prima – poniamo ad esempio – rumena, con 0.02 ppm (cui non si può negare l’ingresso se la Romania ha stabilito una soglia di 0.03) e semplicemente lo rivende (pensiamo alla mangimistica o ai cereali da granella), il prodotto così importato è da considerarsi a norma? C’è un evidente squilibrio della concorrenza: l’operatore deve rifiutare l’acquisto di materia prima nazionale con residui di 0.011 ppm (perchè superiore alla soglia nazionale), ma deve ritenere a norma un prodotto estero con maggior presenza di residui, per quanto accidentali. Per evitare contaminazioni le aziende italiane dovrebbero sopportare maggiori costi di quelle degli altri Paesi, ma competendo sullo stesso mercato.
Per il resto il vostro giudizio è positivo o no?
Abbiamo anche perplessità, in assenza di criteri omogenei di classificazione del rischio, sulla facoltà degli Stati membri di prevedere che le ispezioni complete delle aziende classificate a basso rischio non siano necessariamente annuali. Serve che il quadro sia disciplinato in modo uniforme, e auspicabilmente sia limitato alle piccole aziende agricole che effettuano solo vendita diretta, senza immettere il prodotto in filiere complesse, che hanno la necessità della massima sicurezza dei diversi anelli. Altrimenti si aumenterebbero i costi a carico delle aziende più rigorose, come quelle italiane, costringendole a incrementare i propri audit di parte seconda.
Il regolamento prevede poi l’autorizzazione della coltivazione in cassoni fuori suolo nei Paesi scandinavi…
Infatti. Se da un lato capiamo che le loro condizioni climatiche limitano la produzione di orticole in pieno campo, dall’altro temiamo che tra 5 anni, quando si rivaluterà la situazione, oltre alla richiesta degli scandinavi di confermare l’autorizzazione alla produzione in serra su cassoni, qualcuno proponga la coltura idroponica, magari sostenendo che così non si consuma suolo… Si apre la porta all’aggiunta di vitamine e sali minerali in alimenti di tipo dietetico/funzionale, consentendo lo sviluppo a intere categorie (pensiamo al baby food), su cui ci vorrà senso di responsabilità degli operatori, per evitare un’invasione di referenze fortificate che rischiano di snaturare il concetto di naturalità del prodotto biologico.
Rimane il criterio della semplice equivalenza per i prodotti e i sistemi di controllo nei Paesi terzi, facendo rientrare il più stringente criterio della conformità, che avremmo di gran lunga preferito. Non manca qualche ridicolaggine tecnica (si prevede di certificare il “sale biologico”, quasi si allevasse o coltivasse). Non ci sono disposizioni transitorie per lo smaltimento degli imballi conformi al regolamento vigente, ergo se ne può prevedere il libero uso fino a esaurimento, il che è positivo: non si può scaricare sul sistema delle imprese il peso dei costi connessi all’adeguamento a ogni nuova disposizione.
Quindi complessivamente pollice verso?
In sostanza, dobbiamo riconoscere lo sforzo compiuto dalle Istituzioni per migliorare il testo iniziale della Commissione: il risultato intermedio è abbastanza migliorato, ma non è ancora come lo vorremmo. Riteniamo ora competa loro il forte impegno di lavorare insieme agli Stati membri per superare le debolezze e le incongruenze che il legal check non ha risolto.
Cosa succederà ora?
Prevediamo che nella plenaria del Parlamento europeo possa esserci ancora battaglia: il voto non unanime in Comitato Speciale per l’Agricoltura e in Commissione Agricoltura, anche da parte di autorevoli rappresentanti, dimostra che siamo lontani dall’unanimità dei consensi.
Non si può nemmeno escludere che la Germania, che stanti le incertezze politiche interne, ha tenuto ultimamente un profilo defilato e in CSA si è astenuta, una volta che il suo quadro istituzionale sia definito, entri più decisamente nel dibattito con il suo ruolo anche di leader dei consumi e del mercato.
E l’Italia è al passo in termini di normative?
Regolamento europeo a parte, contiamo sul fatto che il Senato approvi il testo di legge sullo sviluppo e la competitività della produzione biologica e che il Governo approvi rapidamente la riforma del sistema di certificazione e controllo. Oltre che aprire nuovi scenari di crescita per il settore italiano, si dimostrerebbe ai partner dell’Unione europea l’impegno del nostro Paese e si potrebbe stimolare positive modifiche del testo base del regolamento.
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